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Cogliere l’attimo universale: la lezione di Vivian Maier

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di Paul Fasciano –

Su Monster.it il giornalista Valerio Sordilli parla di Vivian Maier e delle “lezioni” che ha lasciato attraverso le sue fotografie, straordinarie (per me la migliore fotografa di sempre). “Quando se n’è andata, nell’aprile del 2009, nessuno, nemmeno Vivian Maier, avrebbe potuto immaginare che la vita e il talento di questa donna, una tata francese di origini umilissime, vissuta in America insieme a una smodata passione per la fotografia, sarebbero stati d’ispirazione fino a questo punto.

La lezione di Vivian Maier: la tata-fotografa che visse due volte

Eppure non c’è un angolo di mondo, oggi, in cui non si pronunci quel nome senza sgranare un po’ gli occhi.

Senza riflettere su quanto pazzesco dev’essere stato per un genio del genere esprimersi all’interno di una storia personale ai limiti dell’incredibile. Da enigmatica tata schiva a icona internazionale della street photography: se dopo tanti anni Vivian Maier non ha ancora smesso di stupirci, un po’ lo si deve anche alla sconcertante parabola che è stata la sua vita. Una tale mescolanza di passione e mistero, dedizione e talento, in grado di consegnarci forse la più grande lezione sul rapporto tra lavoro e vita personale.”

Inizia così l’articolo di Sordilli dedicato a una straordinaria fotografa e a un personaggio che ha acquisito ormai i tratti del mito. La prima fotocamera di Vivian Maier è stata una modesta fotocamera Kodak Brownie con nessun diaframma e controllo della messa a fuoco. Nel 1952 ha poi acquistato la sua prima fotocamera Rolleiflex, quella nell’iconica foto qui sopra. Nel corso della sua carriera ha utilizzato Rolleiflex 3.5T, Rolleiflex 3.5F, Rolleiflex 2.8C, Rolleiflex Automat e altre. In seguito ha utilizzato anche una Leica IIIc, una Ihagee Exakta, una Zeiss Contarex e varie altre fotocamere SLR. Fotografa scoperta postuma, del suo intenso lavoro sono stati trovati più di 100.000 negativi.

Una tale mole di fotografie scattate porta a riflettere su cosa dovesse essere la sua vita, perennemente in bilico tra il suo lavoro di tata e la sua irrefrenabile passione.

Vivian Maier - Artists - Howard Greenberg Gallery

Una lezione sul work-life balance

La storia della fotografa è nota: nel 2007 John Maloof acquista quasi per caso ad un’asta i rullini della fotografa nata nel 1926 e morta nel 2009, che per tutta la vita ha lavorato come baby sitter. Convinto di aver reperito materiale interessante per il libro che stava scrivendo sul suo quartiere di Portage Park a Chicago, si ritrova ad essere unico erede e curatore di uno sterminato archivio fotografico e di molti filmati in Super-8, registrazioni su audiocassette, vari oggetti e ritagli di giornali. Dal suo lavoro si cattura il ritratto di una donna straordinaria, coraggiosa, eccentrica, riservata, segreta. Caratteristiche, queste, che ne hanno aumentato il fascino certamente. Un’anima inquieta con l’immancabile Rolleiflex appesa al collo e, racconta lo stesso Maloof, affetta da una mania ossessiva che la spingeva ad accumulare ogni tipo di oggetto, “ricordi e stralci di momenti” come le sue stesse fotografie.

Siamo oltre la passione, siamo dentro all’ossessione. Forse proprio questo aspetto ne rivela il segreto di tanta dedizione e prolificità. “Difficile che una donna come Vivian Maier avesse confidenza con temi come il work-life balance” scrive Sordilli, “essere una tata, a metà del secolo scorso, significava essere un po’ come una seconda mamma”. Un lavoro a tempo pieno da cui, però, riusciva a evadere per l’unica sua solitaria attività alternativa.

Il “lavoro ben fatto”

La Maier “stampò pochissimo di quanto aveva fotografato nell’arco della sua intera vita. E lo tenne per sé. Il resto è rimasto impresso sui negativi e nei rullini che non fece mai sviluppare. Sul perché di questa scelta, nessuno potrà mai davvero esprimersi. Al massimo ci è dato di accampare qualche ipotesi. Poca roba. Ma una cosa è certa: benché sapesse che buona parte di quelle foto non avrebbe mai visto la luce, Vivian Maier vi si dedicò con tutta se stessa. Scattò migliaia di fotografie (si parla anche di 150mila scatti) soltanto per la “bellezza del gesto”. Per ciò che quell’esercizio ben fatto le trasmetteva. Ecco la lezione che cercavamo: lavorare per se stessi, prima di farlo per l’azienda o per chissà quale altra ragione, è il modo migliore per portare a casa un lavoro ben fatto. Anche se non vedrà mai la luce.

La lezione sulla positività

Dal momento che la “scoperta” di Vivian Maier, vista l’entità della sua produzione artistica, è stata progressiva, ma graduale, c’è stato un momento in cui si è creduto che ci si trovasse al cospetto di una grande fotografa di bianco e nero. In realtà lo scatolone con la sua sconfinata produzione a colori doveva soltanto essere ancora aperto. Da quel momento abbiamo conosciuto un’altra Vivian Maier. E con lei ci portiamo a casa un altro tassello della sua importante lezione: al lavoro non smettiamo di vedere le cose sotto “filtri diversi”.

La lezione sull’intelligenza emotiva

“Provate a guardare dieci fotografie di Vivian Maier. La prima cosa che noterete in tutte è la prospettiva. Sempre differente.” Leggere l’articolo pubblicato su Monster.it è una scoperta di tratti interessanti legati ad alcuni aspetti della fotografia di Maier, come questa capacità di dimostrare l’attimo, di cogliere il momento per trasferirlo immediatamente in un iperuranio immaginifico narratore di verità. “Leggere” ogni verità” scrive Sordilli. La lezione questa volta riguarda la capacità di cogliere questa verità guardandola da angolature differenti, secondo diverse prospettive.

La lezione sull’IO

“Tra i mille interrogativi che la storia di Vivian Maier ha saputo ispirare, uno riguarda gli autoritratti. Perché una fotografa votata alla riservatezza com’era lei, spesso e volentieri sentiva l’esigenza di comparire in prima persona? Anche stavolta non conosciamo la risposta. Ma crediamo di sapere quale lezione quegli scatti ci abbiano lasciato in dote: essere riconoscibili, al lavoro, conta; ma solo come elemento posto al centro di un insieme molto più vasto, che, senza uno sfondo preciso, non significa niente.”

Ed ecco l’ultima lezione sulla riconoscibilità. Nella Maier c’è un tratto distintivo, che caratterizza la sua opera, le sue abitudini, quella di una ricerca continua di fissare, fermare, afferrare l’attimo fuggente. La “ricerca di sé” che è quel qualche cosa che guida tutti noi nelle proprie scelte, lasciando alle nostre spalle la testimonianza di un passaggio che è solo nostro. Nel caso della Maier, uno straordinario passaggio.

Vivian Maier, Vivian's Self Portrait | © Pleasurephoto

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