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La verità sui Dazi USA: il vero scudo contro l’inflazione?

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Lo spettro di nuovi dazi all’importazione negli Stati Uniti, ventilato da potenziali scenari politici, continua a generare intense discussioni globali. Le ipotesi parlano di un aumento generalizzato del 10%, fino al 50% per le importazioni dalla Cina. Sembrerebbe un carburante inevitabile per l’inflazione, con stime teoriche che raggiungono il +1,5%. Eppure, un’analisi controintuitiva di ExportUSA, guidata da Lucio Miranda, suggerisce un impatto reale decisamente più contenuto, tra lo 0,3% e lo 0,5%. Come è possibile? Due fattori chiave sono all’opera: l’assorbimento dei costi da parte di fornitori esteri e importatori americani, e un effetto di sostituzione delle fonti di approvvigionamento.


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Lo scenario e le previsioni: dove i numeri ballano e la realtà sorprende

Lo spettro di nuovi dazi all’importazione negli Stati Uniti, una specie di nuvola minacciosa che ogni tanto riappare sull’orizzonte politico, sta di nuovo facendo scattare qualche allarme. Si parla di un aumento generalizzato del 10% per le merci che sbarcano in America, e per quelle provenienti dalla Cina, beh, l’asticella si alza a un sonoro 50%. A sentirla così, verrebbe da pensare che l’inflazione, quel mostriciattolo che erode il potere d’acquisto, farebbe un balzo in avanti degno di un atleta olimpionico. I modelli economici più accademici, quelli che vivono di certezze matematiche e grafici impeccabili, suggeriscono addirittura un’impennata fino a un teorico +1,5%. Una cifra che, se si materializzasse sul serio, ci farebbe tutti guardare con sospetto il cartellino del prezzo anche per un semplice pacchetto di cracker.

Ma ecco la sorpresa, il colpo di scena che ribalta le carte in tavola. Lucio Miranda, il presidente di ExportUSA, una di quelle realtà che il commercio internazionale lo vive ogni giorno, ci dice che le cose, nel mondo reale, sono spesso più… elastiche. Secondo le loro analisi, l’effetto effettivo sull’inflazione sarà “decisamente più contenuto”. Stiamo parlando di un aumento che si collocherà, più realisticamente, tra lo 0,3% e lo 0,5%. Una bella differenza rispetto a quel balzo da record. È un po’ come aspettarsi un temporale biblico e ritrovarsi con una pioggerellina fastidiosa.

Come è possibile questo miracolo economico? La spiegazione, a ben guardare, non ha nulla di magico, ma molto di pratico. È tutta questione di due fattori chiave, un po’ come i due moschettieri della mitigazione dei costi. Il primo: una parte – o addirittura la totalità – dell’aumento del dazio verrà, molto probabilmente, assorbita da chi vende e da chi compra. Pensateci: i fornitori esteri, per non perdere l’accesso al gigantesco mercato americano, potrebbero essere costretti a limare i loro prezzi alla fonte. E gli importatori americani, dal canto loro, potrebbero scegliere di rosicchiare un po’ i loro margini pur di non spaventare il cliente finale con prezzi troppo alti.

Il secondo fattore, altrettanto affascinante, è l’effetto sostituzione. Immaginatevi al supermercato: se le patatine di una certa marca costano improvvisamente un occhio della testa, la vostra mano andrà automaticamente verso quelle del concorrente, magari non proprio identiche, ma altrettanto soddisfacenti e, soprattutto, meno care. Allo stesso modo, se i beni cinesi diventeranno più costosi, le aziende americane si guarderanno intorno. E il mondo è pieno di fabbriche in altri Paesi, magari un po’ meno blasonati ma altrettanto capaci, pronte a subentrare. Questo spostamento di flussi commerciali è un meccanismo rodato che, in passato, ha già dimostrato di saper riassorbire shock simili.

L’analisi di ExportUSA si basa su un indicatore che la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha particolarmente a cuore per le sue decisioni di politica monetaria: l’indice PCE (Personal Consumption Expenditures). Questo perché il PCE, a differenza di altri indici più generici, è una specie di dietologo dei consumi, riflettendo in modo più fedele le abitudini di spesa reali degli americani. Insomma, non è una questione di capricci, ma di una solida base di dati che suggerisce un’inflazione meno galoppante di quanto si possa temere.

Le dinamiche del mercato: chi paga il conto e la sfida logistica

Mettiamoci nei panni di un fornitore cinese. Anni di duro lavoro per conquistare una fetta del mercato americano, e ora, puff, un dazio del 50% minaccia di spazzare via tutto. Che si fa? Si alza la voce e si spera che il cliente americano paghi? Certo, si può provare, ma è come chiedere a un orso di fare l’equilibrista. La realtà è che il cliente americano, di solito, ha un’alternativa. Ed è qui che entra in gioco l’elasticità (o, se vogliamo, la disperazione) dei fornitori. Piuttosto che perdere un cliente mastodontico, molti sceglieranno di assorbire una fetta, e a volte una fetta grossa, di quel dazio. È un po’ come quando al ristorante vi propongono il dolce: se costa troppo, magari ci rinunciate, ma se ve lo offrono a metà prezzo, improvvisamente la dieta può aspettare. Il potere negoziale dei grandi acquirenti americani è un’arma affilata, e le notizie recenti ce lo confermano con un esempio che definire clamoroso è poco.

Avete presente Walmart, il gigante dei supermercati, la catena che vende praticamente tutto a chiunque? Beh, Walmart non è andata per il sottile. Ha avviato negoziati con i suoi fornitori cinesi per far sì che si accollino un sorprendente 66% dell’aumento dei dazi. Sessantasei per cento! È come chiedere a Babbo Natale di pagare per i regali che consegna. Questo dimostra una dinamica di mercato potentissima: di fronte alla prospettiva di perdere volumi enormi, i fornitori sono disposti a sacrificare parte dei loro margini pur di non essere tagliati fuori. E non sono solo i fornitori esteri a stringere la cinghia. Anche gli importatori americani potrebbero decidere di assorbire una quota dell’aumento, accettando una compressione dei propri profitti pur di mantenere i prezzi competitivi e non far scappare i clienti. Dopotutto, in un mercato dove la concorrenza è una gara all’ultimo centesimo, ogni mossa è ponderata.

Ma c’è un altro cavallo di battaglia in questa strategia anti-inflazione: l’effetto sostituzione. Se un prodotto cinese diventa proibitivo a causa dei dazi, l’occhio si sposta. E il mondo, per fortuna, non è fatto di un solo fornitore. Vietnam, Messico, India, persino alcune produzioni locali negli Stati Uniti: tutti potenziali beneficiari di questo “effetto domino” commerciale. È un po’ come quando il vostro negozio preferito aumenta i prezzi: improvvisamente, scoprite quel delizioso negozietto all’angolo che non avevate mai considerato. Questo non solo attutisce l’impatto inflattivo, ma accelera anche una tendenza già in atto: la ridislocazione delle catene di fornitura. Le aziende, scottate dalle turbolenze degli ultimi anni (pandemia, guerre, blocchi nei canali marittimi), stanno già cercando di diversificare le loro fonti, di avvicinare la produzione ai mercati di consumo (il cosiddetto “near-shoring” o “friend-shoring”). I dazi, in questo senso, agiscono come un acceleratore, spingendo le aziende a fare quello che, forse, avrebbero dovuto fare comunque.

A sostenere questa tesi sull’assorbimento dei costi, c’è un dato che farà sorridere gli azionisti: le aziende americane della distribuzione godono di una salute finanziaria invidiabile. I loro profitti hanno superato il trend storico negli ultimi anni, accumulando una sorta di “cuscinetto finanziario” che, a quanto pare, è pronto a subire qualche ammaccatura senza che l’intera struttura crolli. È un po’ come avere un salvadanaio bello gonfio: se arriva una spesa imprevista, si intinge lì senza troppi patemi. Questo margine di manovra offre alla distribuzione americana la capacità di assorbire i nuovi dazi senza compromettere la propria redditività in modo catastrofico.

Tuttavia, come un bravo detective che non si fida delle apparenze, Lucio Miranda ci avverte: non fermiamoci alle prime conclusioni. C’è un altro elemento da monitorare, una variabile che potrebbe far deragliare anche le previsioni più rosee: la logistica globale. Il riallineamento delle catene di fornitura, sebbene necessario, è un’operazione da chirurgo su un elefante. Richiederà tempo e, inevitabilmente, creerà colli di bottiglia. Parliamo di ingorghi sulle rotte marittime (il Mar Rosso e il Canale di Panama continuano a dar grattacapi), scarsità di navi e container, intoppi nei trasporti terrestri, magazzini saturi e persino mancanza di personale qualificato. Tutto questo marasma potrebbe far aumentare i costi logistici, e, di riflesso, spingere i prezzi al consumo, anche se in modo indiretto. Non sarà un dazio diretto, ma una sorta di “tassa nascosta” dovuta all’inefficienza. Un effetto che le stime dirette sull’inflazione non includono, ma che potrebbe far capolino all’improvviso, come un vicino rumoroso che si presenta senza preavviso.

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Implicazioni globali: la resilienza del sistema e i costi nascosti

L’analisi di ExportUSA, dobbiamo ammetterlo, dipinge un quadro di sorprendente resilienza. È quasi come osservare un pugile incassare un colpo potente e poi scrollarsi di dosso la polvere, dimostrando una capacità di adattamento che va oltre le previsioni più pessimistiche. La capacità dei fornitori esteri di assorbire i costi e la flessibilità degli acquirenti nel diversificare le fonti di approvvigionamento suggeriscono che il “grande spauracchio” inflattivo dei dazi potrebbe rivelarsi un gattino rispetto al leone temuto. Questo però non significa che le implicazioni siano irrilevanti. La rinegoziazione dei contratti, lo spostamento fisico delle fabbriche, la ricerca di nuovi partner commerciali: sono tutti processi che generano incertezza, attriti, e una buona dose di mal di testa a livello dirigenziale. Non si traducono immediatamente in un’impennata generalizzata dei prezzi, ma sono comunque un peso.

Lucio Miranda tocca un nervo scoperto, e fa bene a farlo: mentre l’inflazione diretta potrebbe essere contenuta, l’effetto indiretto legato alla logistica è una variabile da non sottovalutare. Le catene di fornitura globali sono organismi complessi, una specie di sistema nervoso mondiale del commercio. Un cambiamento forzato, come quello imposto da nuovi dazi, può creare disfunzioni a cascata, con ritardi nelle consegne e costi aggiuntivi che alla fine si riverseranno sui consumatori in modo meno evidente, ma pur sempre tangibile. Pensate a un sasso lanciato in uno stagno: le onde si propagano, e a volte quelle più lontane sono le più insidiose.

La domanda finale che emerge da tutto questo è affascinante e, per certi versi, inquietante: questa “resilienza” del sistema è un segno della sua intrinseca forza e adattabilità, o piuttosto della sua capacità di nascondere temporaneamente problemi strutturali più profondi? Fino a che punto i margini possono essere compressi e le catene di fornitura possono essere “riallineate” prima che il sistema raggiunga un punto di rottura? O, peggio ancora, prima che i costi nascosti superino i benefici apparenti, trasformando quella che sembrava una strategia “intelligente” in un fardello invisibile? La storia ci insegna che il commercio globale si adatta, è vero, ma l’adattamento ha sempre un prezzo. E questo prezzo, a volte, non si traduce subito in un numero nell’indice inflattivo, ma in un mutamento silenzioso e profondo delle dinamiche economiche globali, di cui ci accorgiamo solo quando, improvvisamente, scopriamo che il nostro fornitore storico non esiste più o che le merci arrivano da un capo del mondo che nemmeno conoscevamo.

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