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LinkedIn e recruiter: l’errore che blocca il personal brand

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I recruiter italiani – e in particolare gli HR – rischiano di perdere terreno. Il 36,4% delle risorse umane utilizza LinkedIn esclusivamente per cercare candidati, e appena il 2,3% lo sfrutta per trovare nuovi clienti. Nonostante il 68% dei professionisti dichiari di non incontrare difficoltà nell’uso della piattaforma, quasi la metà non ha mai esplorato nemmeno LinkedIn Analytics, lo strumento che misura l’efficacia del loro personal brand. È come possedere una Ferrari e usarla solo per fare la spesa.


Proprio per capire meglio questo paradosso – avere a disposizione uno dei social professionali più potenti, eppure non sfruttarlo – insidemagazine si è avvalso degli ultimi dati raccolti da Communikey. Elena Sandre, CEO e fondatrice di Communikey, ci ha raccontato come la maggior parte degli HR si concentri su ricerche anonime piuttosto che sulla costruzione di relazioni autentiche.

Ma c’è di più: l’algoritmo di LinkedIn nel 2025 premia i contenuti che generano interazioni reali, commenti ponderati e discussioni autorevoli. In un contesto dove fiducia, autorevolezza e visibilità fanno la differenza, il personal brand non è più un optional: è una leva strategica di business.


👉 Tra poco vedremo come trasformare questa “macchina potente” in un motore performante per recruiter e professionisti HR. Continuate a leggere.


Una piattaforma potente usata a metà

«LinkedIn? Lo uso tutti i giorni». È la risposta più frequente che si ottiene quando si chiede a un recruiter quanto tempo dedica alla piattaforma professionale per eccellenza. Ed è anche il primo equivoco da chiarire. Perché usare LinkedIn non significa semplicemente scrollare bacheche, mandare richieste di contatto o fare qualche ricerca nel database. Significa costruire valore intorno alla propria presenza, generare fiducia e farsi riconoscere come riferimento nel proprio campo. Ma questo, a quanto pare, è ancora un punto cieco per la maggior parte dei professionisti HR.

Il sondaggio condotto da Communikey, realtà di comunicazione specializzata nella formazione sul personal branding e la comunicazione HR, mostra uno scollamento evidente tra potenzialità e pratica. Ben il 63,6% dei recruiter dedica a LinkedIn solo 1 o 2 ore a settimana, e lo fa per lo più in modo silenzioso e funzionale: cercando candidati, osservando profili, talvolta leggendo aggiornamenti aziendali. Solo il 2,3% lo utilizza per cercare potenziali clienti. Eppure, parliamo della piattaforma che oggi permette – come poche altre – di posizionarsi come interlocutori autorevoli prima ancora di qualsiasi trattativa commerciale.

C’è un dato che spiega meglio di ogni altro il limite del sistema attuale: il 46% dei professionisti HR non ha mai utilizzato LinkedIn Analytics, lo strumento base per comprendere la portata del proprio profilo e dei contenuti pubblicati. In altre parole, chi lavora nella selezione – in un’epoca in cui la reputazione digitale è quasi tutto – spesso non monitora nemmeno l’impatto della propria presenza. È un cortocircuito strategico. Non si tratta, infatti, solo di visibilità: ma di costruire fiducia prima di vendere competenza. E fiducia – oggi più che mai – non si conquista con un CV ben scritto, ma con un’identità ben raccontata.

Molti HR sembrano inconsapevoli del valore che potrebbe avere un posizionamento personale forte, fatto di contenuti pensati, aggiornamenti coerenti, relazioni curate. E così LinkedIn resta, per tanti, una grande macchina ferma in garage: potentissima, ma immobile.


👉 Ma quali sono i veri vantaggi competitivi per un HR che decide di usare LinkedIn con consapevolezza? E, soprattutto, come si costruisce oggi un personal brand autorevole senza sembrare autoreferenziali?


Il personal branding come asset strategico

Per comprendere davvero quanto LinkedIn sia ancora sottoutilizzato da chi opera nella ricerca e selezione del personale, abbiamo raccolto alcuni insight direttamente da Communikey, agenzia di comunicazione specializzata proprio nell’ottimizzazione dell’identità professionale. L’impressione condivisa è chiara: la maggior parte dei recruiter sfrutta la piattaforma solo in chiave tecnica, come se fosse un motore di ricerca per profili, perdendo di vista la possibilità più preziosa. Quella, cioè, di costruire fiducia e riconoscibilità nel tempo.

“È come avere a disposizione una macchina da corsa – ci hanno detto – e usarla solo per andare a fare la spesa. La ricerca dei candidati è essenziale, ma è solo una parte del lavoro. Se non racconti chi sei, cosa sai fare, in cosa credi… perché mai un talento dovrebbe fidarsi di te prima ancora di essere contattato? E perché un’azienda dovrebbe affidarti la selezione del suo personale, se non sa nulla di te a parte la firma in calce a una mail?”

Il punto è questo: LinkedIn non è una vetrina, è un ecosistema relazionale. E chi sa navigarlo bene non ottiene solo visibilità, ma influenza, contatti qualificati, opportunità. I recruiter che investono tempo nella cura del proprio personal brand – aggiornando il profilo in modo coerente, pubblicando contenuti di valore, interagendo in modo intelligente – diventano nodi riconosciuti e autorevoli di quella rete. E questo cambia tutto: nei rapporti con i candidati, con le aziende, nel posizionamento sul mercato.

Un esempio concreto? Il personal brand ben gestito riduce drasticamente il tempo di risposta ai messaggi, migliora il tasso di apertura delle proposte e soprattutto apre nuove conversazioni senza passare dal contatto freddo. La logica è semplice: se sei riconosciuto, sei già un passo avanti. Se sei stimato, diventi una preferenza naturale. Se sei trasparente, ispiri fiducia.

Eppure, molti professionisti HR sembrano trattenuti da una sorta di resistenza culturale: la paura di esporsi, di sembrare autoreferenziali, di “perdere tempo” in attività non immediatamente monetizzabili. Ma è proprio questa ritrosia che oggi crea il gap tra chi resta invisibile e chi diventa una figura di riferimento nel proprio settore.

Come hanno sottolineato da Communikey, il personal branding non è autopromozione: è strategia di lungo termine. È l’arte di far combaciare reputazione e realtà. È un investimento relazionale che, nel tempo, restituisce valore molto prima – e molto oltre – la singola selezione.


👉 Quali sono gli elementi chiave per costruire una presenza efficace e quali errori evitare se si vuole davvero far funzionare LinkedIn come leva di business e di autorevolezza.


Il valore che resta: costruire un’identità che parla

In un ecosistema dove tutti cercano attenzione, a fare la differenza è chi sa farsi riconoscere, non chi urla di più. LinkedIn non premia solo la presenza, ma la coerenza. La capacità di comunicare valore in modo continuativo, chiaro, credibile.

Costruire un personal brand solido non significa pubblicare quotidianamente, né trasformarsi in influencer. Significa avere una voce distintiva, un posizionamento leggibile, una linea narrativa professionale coerente con i propri valori e obiettivi. Un recruiter che oggi voglia differenziarsi deve smettere di pensare alla piattaforma come a un archivio di CV e iniziare a usarla come una palestra pubblica della propria visione e del proprio metodo.

Ciò che oggi fa la differenza è la capacità di generare fiducia prima del primo contatto: attraverso un profilo curato, un linguaggio professionale chiaro, una selezione ragionata dei contenuti condivisi. Una foto aggiornata, una headline che spiega “chi sei” davvero, una sezione about che racconta la tua identità professionale in modo diretto ed empatico: tutto parla per te, molto prima di una mail o una telefonata.

L’altro aspetto spesso trascurato è la curiosità selettiva: chi ti segui, cosa commenti, dove ti posizioni nei dibattiti professionali. Anche il tuo silenzio, su LinkedIn, comunica. Per questo è strategico scegliere bene non solo cosa dire, ma come interagire con la community. Le relazioni, qui più che altrove, sono la risorsa che definisce il tuo capitale professionale.

C’è poi la questione del tempo. Bastano 30 minuti ben usati a settimana per aggiornare il profilo, analizzare le metriche, curare le connessioni e condividere un contenuto di valore. Non serve essere onnipresenti: serve essere rilevanti. Serve costruire, nel tempo, un’identità digitale che corrisponda alla tua professionalità reale.

Come ci è stato detto da Communikey, “un recruiter che sa comunicare bene è già un passo avanti nella relazione. Ma chi sa farlo in modo autentico, diventa una figura di fiducia per candidati e clienti”. E oggi, in un mercato fluido, affollato e spesso confuso, la fiducia è la vera moneta di scambio.

LinkedIn non è (più) un’opzione. È uno dei pochi luoghi digitali in cui la professionalità può diventare riconoscibilità. Ma come ogni strumento potente, va guidato con visione, competenza e consapevolezza. Per questo, saper comunicare il proprio valore non è più un vantaggio competitivo. È una condizione necessaria.

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