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Mental coaching – La vita è uno sport di competizione… con te stesso

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Ti sarà capitato di sperimentare su te stesso come esistano giornate in cui tutto ti riesce meglio e come in quei giorni tu riesca ad essere di un’efficacia impressionante e giornate in cui, invece, fai molta, moltissima fatica a portare a termine praticamente qualsiasi cosa, anche quello che sembrava così semplice.

Avrai visto succedere la stessa cosa a molti sportivi, i quali mettono a segno prestazioni eccezionali e, la volta dopo, prestazioni del tutto anonime. Cosa succede? Cosa fa la differenza tra questi due stati?

Nella logica delle situazioni personali, ci sta che ciascuno di noi abbia momenti di euforia e altri di minore motivazione. Le esigenze e gli obiettivi cambiano continuamente. Alcune volte la pressione è alta, le aspettative nei nostri riguardi ci fanno sentire sotto mira. Per uno sportivo si può trattare di gestire le richieste di un allenatore scorbutico. O semplicemente può esistere un problema di concentrazione che, in alcune circostanze, non si riesce a mantenere se non per breve tempo.

Mental coaching

In tutti questi casi sono le emozioni la prima discriminante, quando, cioè, diventano non funzionali agli obiettivi che ci siamo posti. Eancora prima che l’emozione si inneschi, tutto sta già avvenendo nella nostra mente. E’ necessario fare una distinzione innanzitutto: mente e cervello non sono sinonimi. La mente è una cosa, il cervello è un’altra. La mente guida, il cervello esegue. O almeno tenta di farlo al meglio delle sue possibilità. Infatti, il cervello per prima cosa deve assolvere a una missione fondamentale per lui (e per noi): risparmiare energia. Per questo funziona in un certo modo, gestisce, smista e conserva dati così da essere il più efficiente possibile. Ma questa sua caratteristica può diventare controproducente. E’ il caso delle convinzioni ad esempio. Quando siamo convinti di una cosa interpretiamo il mondo sotto una certa luce, filtrata appunto dalla convinzione. Gli antichi Greci avevano la convinzione che esistessero molti dèi in grado di controllare il loro destino e questa convinzione gli faceva interpretare gli avvenimenti della loro vita come se fossero lo specchio di un volere più alto, che bisognava ingraziarsi. La vita di un antico greco, i suoi modi di pensare, di agire, di interpretare gli avvenimenti, di fare fronte alle avversità, era quindi molto diversa dalla nostra.

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La caratteristica di una convinzione è quella di essere analogica. Raggruppiamo, cioè, tutte le cose simili sotto un’unica convinzione.

“Gli uomini sono tutti… le donne sono tutte… non bisogna essere troppo buoni… non sono bravo in questo… il mio capo è un despota… ecc. ecc.” Raggruppare cose assieme e fare, come si dice, “di tutta l’erba un fascio”, ci fa risparmiare a livello cerebrale molta energia, ma ci preclude anche di essere maggiormente efficienti quando vogliamo.

Muhammad Alì ha detto: “È la ripetizione delle affermazioni che porta a credere. E quando il credere diventa una convinzione profonda le cose iniziano ad accadere.” Questo è assolutamente vero, e può portare a conseguenze costruttive, come le intendeva il pugile, ma anche distruttive, quando tornare sul pensiero ci convince di qualcosa di poco produttivo per noi.

Possiamo quindi diventare letteralmente “schiavi” dei nostri pensieri ricorrenti. Esiste un termine tecnico per definire questo “rapimento neuronale”, ed è: einstellung. Una parola tedesca che vuol dire atteggiamento.

E’ proprio dall’interazione tra mente e cervello che nasce un atteggiamento. La mente suggerisce al cervello, e il cervello mette insieme i pezzi creando connessioni sinaptiche. Da questo rapporto può nascere un flusso coerente oppure un conflitto. Potremmo definirlo il conflitto che può esistere tra la parte subconscia “operativa” e la parte conscia “giudicantealla quale seguono emozioni che ci spingono ad azioni non adeguate o sproporzionate, soprattutto in quei giorni “no”.

Tim Gallwey pubblicò nel 1972 un libro destinato a dare il via al coaching come pratica di affiancamento per il miglioramento delle performance personali. Il libro si chiama “Inner game”, Gioco interiore. Quando è uscito questo libro è stato subito un successo universale: per la prima volta un libro di sport non parlava della tecnica in sé, ma si concentrava sull’aspetto interiore del gioco e del “gesto atletico”: gli ostacoli che ogni sportivo incontra sono nella sua mente. La partita strategicamente più importante si svolge all’interno della mente dell’atleta, come in quella di ognuno di noi e ben poco ha a che fare con la strategia e con l’abilità dell’avversario, o con la vastità del problema in corso. E’ la mente la discriminante, e ciò che suggerisce di fare al nostro cervello fa tutta la differenza di questo mondo. O meglio, del tuo mondo.

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La buona notizia è che puoi determinare volontariamente le tue abilità mentali e, grazie a questo, permettere una maggiore armonia.

Fattori chiave per iniziare a lavorare in modo efficace con la tua mente sono: lasciar andare il giudizio, lasciar andare l’ego, essere focalizzato sul momento presente, essere disposto ad apprendere dai feedback che ricevi, fidarti delle tue capacità e del fatto che possono migliorare facilmente. Azioni altrettanto chiave durante questo lavoro sono: acuire i sensi, visualizzare, immaginare, recitare la parte “come se”. Come se fossi già in grado, come se ci fossi già riuscito, ecc.

In poche parole, la chiave è pensare a un livello diverso. A un livello più alto. Esistono tecniche, strumenti, modalità per diventare sempre più abili in questo. Nel coltivare, cioè, le attitudini e trasformarle in efficienza fattuale. Se hai attitudine ma non hai talento e ti alleni, diventi più bravo e acquisti talento. Quando hai talento e ti alleni diventi ancora più bravo. Quando ti alleni e spingi un poco più in là, ti sfidi a dare il meglio di te, è a quel punto che fai il grande salto di categoria.

Una cosa del genere costruisce sicuramente un mindset vincente. Ma può costruire anche un destino.

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