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Web economy: il punto in Italia

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Da alcuni anni sentiamo spesso parlare di web economy e della sua rivoluzione silenziosa che ha cambiato il mondo dell’economia. Ma di cosa si tratta esattamente? Si tratta dell’economia che si basa sulle tecnologie informatiche che ne rappresentano il pilastro. Ossia è l’economia che ruota attorno al digitale. Qualcuno accosta l’economia digitale all’Internet economy o alla Web economy ma di fatto l’economia digitale ha un raggio molto più ampio rispetto a quello della Rete, visto che fanno parte della digital economy anche strumenti hardware e software. Il primo a parlare di Digital Economy è stato nel 1995 Don Tapscott nel libro, divenuto presto un best seller, “The Digital Economy: Promise and Peril in the Age of Networked Intelligence”. Dopo di lui numerosi gli studiosi, gli economisti e gli specialisti mondiali che si sono dedicati ad analizzare un “fenomeno” tutto in evoluzione.

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Il web cambia le opportunità

Il web ha cambiato il nostro mondo e, col tempo è stato in grado di formare un nuovo modello economico. Non a caso sentiamo parlare di web economy, una realtà che vale miliardi di dollari, o di euro. Quando parliamo di Web Economy ci riferiamo a questo nuovo scenario cominciato nella primavera del 2000, col crollo dei titoli tecnologici NASDAQ.

Dove prima trovavamo decine di realtà dot.com, che poi si erano scoperte parte di una enorme speculazione finanziaria incapace di creare un modello sostenibile e quindi costretta a morire su se stessa, ora la realtà della web economy, nata da quelle ceneri, è molto più organizzata e sostenibile.

Lo racconta bluerating.com, mettendo l’accento sulla possibilità di un nuovo modello economico, a portata di click. “Approfittando di questa nuova realtà – si legge nell’articolo – oltre alle vecchie, sono andate via via formandosi nuove realtà, nuovi mercati e comparti industriali, creati e adeguati ai nuovi bisogni richiesti. Questo però non ha creato una economia alternativa a quella esistente, bensì ha aiutato a riformare e adattare alcuni concetti tradizionali. Abbiamo assistito a un mutamento anche del modo e dei tempi della gestione degli affari, con un grande aumento dell’e-commerce e un’intensificazione delle relazioni business to business (B2B) o business to consumer (B2C).”

I settori coinvolti

Sono tanti i settori coinvolti nella rivoluzione della web economy secondo lamiafinanza.it. Tra questi il trading online che è considerato come la “bomba” del secolo per quel che riguarda le Borse. Sullo stesso piano il forex, ossia il mercato delle valute. Forse si tratta del mercato più complesso e difficile per qualsiasi investitore, infatti fino a poco fa era una realtà chiusa, del tutto limitata a pochissimi esperti del settore, con un grande portafoglio di investimento a disposizione.

La web economy non è solo borsa. Anzi. Non ha un peso soltanto sul mondo dei mercati o delle tecnologie, la sua ombra ha avvolto totalmente la società e cambiato tantissimi aspetti della vita socio-economica dei paesi industrializzati. Un esempio è l’e-Governement, una realtà sempre più diffusa, dove l’amministrazione pubblica diventa digitale, permettendo un contatto e un accesso al suo pubblico più diretto e immediato, snellendo i tempi burocratici e le difficoltà.

«Sarà il digitale a guidare il marketing ed anche le Relazioni Pubbliche si faranno quasi esclusivamente online, con nuove piattaforme e nuove tecnologie che già stanno nascendo a partire dalla terribile esperienza del Coronavirus» puntualizzano gli analisti del portale AJ-Com.Net specializzato in campagne di comunicazione e web marketing. 

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La web economy in Italia

Difficile calcolare il valore reale della web economy vista la crescita esponenziale degli ultimi anni. Secondo gli esperti entro la fine del 2020 si arriverà al 48% della popolazione planetaria che utilizzerà i canali digitali per fare acquisti: a far lievitare questa stima è in particolare l’emergenza sanitaria determinata dal Coronavirus – continua bluerating.

Anche in Italia la situazione è in continua evoluzione: secondo il report “Sizing the Digital Economy” di Boston Consulting Group che fornisce una valutazione dell’impatto di internet sull’economia sia in termini attuali che prospettici – mentre nei paesi nordeuropei l’economia digitale contribuisce al PIL in misura maggiore, l’Italia occupa il terzultimo posto fra i 28 Stati membri dell’UE, con un punteggio pari a 43,6 (rispetto al dato UE del 52,6), arrestandosi ad un poco considerevole 25esimo posto, migliore solo di Romania, Grecia e Bulgaria.  Per ora. Calcoli alla mano, da qui ai prossimi anni l’Internet economy rappresenterà una fetta sempre più importante, in previsione dei nuovi investimenti in arrivo nel vari campi che mettono in prima linea la trasformazione digitale. Miliardi di euro che andranno investiti “bene”.

Perché l’Internet economy si sviluppi appieno nel nostro Paese e l’Italia possa trarne i massimi vantaggi, sottolineano gli esperti, bisogna seguire alcune linee direttive: innanzitutto bisogna favorire sempre di più lo spostamento sul web delle PMI, che costituiscono la gran parte del tessuto produttivo italiano e potranno così ampliare il loro bacino d’utenza anche oltre i confini nazionali. Nella nostra nazione facciamo un po’ di fatica a parlare un linguaggio comprensibile dalla web economy, rimanendo ancorati ai vecchi modi di fare. Ma questo non è solo uno svantaggio, visto che vecchio dalle nostre parti è anche sinonimo di tradizione. Si rende necessario investire allora in know-how e sviluppare il mobile-commerce, più immediato per tutti, in tutte le sue forme.

Ora vediamo i reparti da monitorare. Prima del Coronavirus la domanda dell’e-commerce era trainata prevalentemente dal settore del turismo (20 miliardi di euro nel 2018), nel 2020 la bilancia si sposta verso altri settori, a partire dal food e beverage (24 miliardi di euro), advertising, marketing e relazioni pubbliche (14 miliardi), abbigliamento (12 miliardi), arredamento (11 miliardi), informatica ed elettronica (9,4 miliardi), incontri e dating online (8 miliardi), farmaceutico, wellness e beauty (7 miliardi), editoria, dvd e multimediali (6 miliardi), assicurazioni (4 miliardi), auto, moto e ricambi (1,2 miliardi) e beauty (1 miliardo).

«Ora -proseguono gli esperti- è maggiormente il fattore Coronavirus a determinare le scelte». Gli italiani, quindi, si sono spostati e lo faranno ulteriormente, sempre più sul canale digitale ed è così che le «dot com» cresceranno quest’anno ad una velocità quintupla rispetto alle aziende tradizionali, con enormi benefici economici e sociali derivanti sia in termini di opportunità di business che di impatto sull’occupazione: basti pensare che negli ultimi 12 anni sono stati creati in Italia oltre un milione di nuovi posti di lavoro collegati al web.

L'”economy” circolare, ed è subito futuro

Attenzione, poi, a un dato interessante e spesso sottovalutato o non compreso: l’Italia conserva tra le principali economie dell’Unione europea la medaglia d’oro per l’economia circolare.  Nella produzione circolare il nostro Paese è stabile al primo posto con una quota di riciclo complessiva del 68% rispetto a una media europea del 57%. Un tasso di uso circolare di materia del 19.3%, mentre la media europea è del 11,9%. L’economia circolare inciderà in misura esponenziale nella società post Covid-19. Le città stesse diventeranno “circolari“.

«Che cos’è la città se non la gente?»
Shakespeare, Coriolano, Atto III, Scena I

La transizione verso modelli più circolari di vivere e produrre rappresenta la migliore soluzione ai crescenti problemi delle economie di oggi, impostante ancora sulle soluzioni di ieri. Almeno in gran parte. Si pensi, ad esempio, ai carburanti che utilizziamo su auto, navi e aerei, ancora inquinanti. Mentre dalla plastica, un inquinante, possiamo ricavare un carburante sostenibile ed ecologico al 100% grazie alla pirolisi. Investire quindi in nuovi modelli sostenibili, un passaggio indispensabile per prevenire ancor più gravi squilibri economici e sociali in quelle di domani.

  • il potenziamento degli impianti di raccolta, smistamento e riciclaggio, in grado di renderci meno dipendenti dai mercati esteri, che ad oggi, purtroppo, sono ancora i principali destinatari dei nostri rifiuti
  • gli investimenti in ricerca per arrivare a riciclare e in strumentazione tecnologica in grado di rendere più efficace la selezione delle materie prime ai fini del riciclo
  • un design che pensa ad oggetti fatti per essere rifatti.

«Faccio fatica a immaginare un business che non abbia almeno una componente digitale. Il nostro Paese ha ancora un livello di digitalizzazione modesto, ma il 2020 ha permesso di crescere notevolmente»

ha dichiarato Gianluca Stamerra, regional director per Italia, Francia e Spagna di GoDaddy che ha provato a raccontare come stia procedendo l’alfabetizzazione digitale delle nostre aziende. E lo fa da un osservatorio privilegiato: l’azienda per cui lavora, società di registrazione di domini Internet e di hosting web.

La trasformazione del .it

“Quotata in Borsa con sede a Scottsdale, Arizona e incorporata nel Delaware, GoDaddy ha più di 20 milioni di clienti e oltre 7.000 dipendenti in tutto il mondo. Il punto di partenza, però, non è esattamente confortante: secondo l’Istat nel 2020 solo il 17,4% delle imprese italiane con oltre tre addetti è stato in grado di vendere beni e servizi attraverso il proprio sito web.” E così torniamo al punto, grazie a economymagazine.it che ci racconta anche le buone notizie che arrivano dal Cnr e da un censimento effettuato dall’Istituto di Informatica e Telematica attraverso l’organo Registro.it: “nel 2020 sono stati registrati 592.821 nuovi domini “.it”, con un incremento del 13,2% rispetto al 2019.

Businessman surfing internet Free Photo

Chi è che va a beneficiare di questo boom indotto dal lockdown?

Sono soprattutto i professionisti che, in un anno, hanno più che raddoppiato la loro quota.

Curiosamente, tra l’altro, si tratta del più elevato incremento dal 2008, altro anno di drammatica crisi economica.

E allora un dato: quanto costa avere un sito internet? «Possono bastare anche poche centinaia di euro per crearne uno che funzioni bene – continua Stamerra – a patto però di gestirlo in maniera efficace. La digitalizzazione di per sé non è garanzia di successo, tant’è che secondo vari studi il 90% delle imprese neonate non arriva a compire un anno. Ma l’adozione del digitale nella sua molteplicità di possibilità è garanzia di ottimizzazione dei costi” E’ il caso di un ristorante, ad esempio, per il quale il sito internet «permette di gestire le prenotazioni online riducendo l’esigenza di una persona dedicata a ricevere le telefonate».

«Lo spirito imprenditoriale – conclude Stamerra – significa tramutare le proprie passioni in un business. Ho conosciuto aziende che hanno sfruttato i social network come vetrina per creare dal nulla le proprie attività e che hanno potuto crescere proprio grazie all’adozione di questi strumenti, senza investimenti fantasmagorici. Ma rimane anche il fatto che il 60% delle imprese con cui entriamo in contatto non ha la più pallida idea di come iniziare un processo di digitalizzazione. Per questo abbiamo anche dato vita a una academy con formazione gratuita – la “Go Daddy School of Digital” – per insegnare agli imprenditori come migliorare la propria strategia».

In alternativa, rivolgetevi a un e-Coach di InsideMagazine.

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