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Il Coaching e il raggiungimento degli obiettivi

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  • di Gianfranco Tomei

Il termine “Coach” (dal francese coche, cocchio, carrozza, derivato a sua volta dall’ungherese Kocsis o dal ceco Koczi) nel XVI secolo identificava un mezzo di trasporto trainato da cavalli e condotto da una guida: il cocchiere. La pratica del “coaching” successivamente nasce e si sviluppa per incrementare e migliorare le potenzialità sportive e strategiche dell’individuo o di gruppi di individui, secondo la teoria formulata da John Whitemore.  Altro contributo importante è stato dato dal californiano W. Timothy Gallwey, che negli anni ’70 scrisse una serie di libri nei quali proponeva il coaching applicato a molti campi: sportivi come il tennis, il golf, lo sci, campi artistici come la musica, ma anche lavorativi; le sue indicazioni poi sono state applicate anche al campo degli affari, della salute, dell’educazione.

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Secondo Gallwey, spesso le energie più importanti giacciono inutilizzate dentro l’individuo, immobili a livello latente, ed è compito del coach riuscire ad individuarle, riconoscerle e condurle in superficie, in modo che l’atleta (o il manager) sia in grado di utilizzarle, sia all’interno di una competizione che nel raggiungimento del compito che ci si è prefissi. 

Come crescere col coaching

Ma come fare per crescere, per superare i propri limiti, personali o ambientali? La crescita è un argomento importante, addirittura scottante di questi tempi, dove tutte le strade sembrano essere state percorse, tutte le risorse bruciate, tutte le possibilità di incremento e miglioramento del proprio status esistenziale appaiono ridotte al minimo delle possibilità, specie nei paesi dove la crisi economica e sociale morde più duramente e profondamente.

Alla base dell’allenamento, di ogni allenamento, c’è la ripetizione (repetition, abbreviato rep in inglese). La “ripetizione” dell’esercizio è il fulcro e l’elemento primo che sta alla base del miglioramento della performance: l’idea che la ripetizione, la reiterazione del gesto atletico, come sollevare un determinato peso più e più volte, percorrere la stessa distanza a velocità sempre più sostenuta, consente all’organismo di adattarsi sempre più a quel particolare gesto, al tipo di sforzo richiesto.

E’ la descrizione dell’individuo post-moderno, metropolitano, privo di bussola e di punti cardinali per orientarsi

Il sociologo Emile Durkheim ha formalizzato nei suoi libri il termine Anomia (a-nomos, a- dal greco è alfa privativo, nomos, dal greco: norma, legge, regola). L’anomia è la mancanza di regole, l’inesistenza di norme di condotta che portano l’individuo a sentirsi perso, isolato, abbandonato a se stesso senza punti di riferimento stabili che gli possano indicare la via da percorrere. Ne “La divisione del lavoro sociale” il sociologo tende a definire uno stato oggettivo di carenza normativa, piuttosto che uno stato soggettivo. Ne deriva un concetto di anomia come mancanza di norme sociali, di regole atte a mantenere, entro certi limiti appropriati, il comportamento dell’individuo.

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L’individuo post-moderno

E’ la descrizione dell’individuo post-moderno, metropolitano, privo di bussola e di punti cardinali per orientarsi nella società. In azienda ciò avviene quando i leader non hanno ben chiaro in mente come gestire un gruppo di lavoro, cosa voler ottenere da esso, e lasciano i dipendenti abbandonati a se stessi, precipitando così nell’indeterminato e in condizioni di deriva relazionale e professionale, soggetti che al contrario un management efficace saprebbe valorizzare e re-inserire in un proficuo ciclo produttivo. Le social affordances al contrario sono le opportunità che l’ambiente fornisce all’individuo. Sono le tradizioni, le usanze, le impronte sociali, le occasioni che una data comunità fornisce ai suoi membri come patrimonio prima di tutto genetico e poi ambientale, e attraverso le quali l’individuo o il gruppo ha più possibilità di emergere e di avere successo rispetto ad individui o gruppi concorrenti.

Usate da J.J.Gibson in questa definizione determinata, le social affordances poi sono state utilizzate più spesso nella descrizione dell’interazione uomo-macchina, hanno in parte perso e modificato nel tempo il loro originario significato di opportunità che l’ambiente circostante mette a disposizione dell’individuo. Nella loro nuova versione legata allo sviluppo della tecnologia, le affordances sociali – o più esattamente le affordances sociotecniche – si intendono come interazioni reciproche tra un’applicazione tecnologica, i suoi utenti e il suo contesto sociale. Queste interazioni sociali includono le risposte degli utenti, l’accessibilità sociale e i cambiamenti relativi alla società.

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Le affordances sociali non sono sinonimo di semplice frequenza statistica e fattuale.

Concludendo

Il raggiungimento degli obiettivi del Coachee è un tema importante nello sviluppo della disciplina del Coaching. Bisogna però tenere a mente che il Coach non è responsabile di questo raggiungimento, ma è RESPONSABILE DEL PROCESSO che è alla base di questa conquista del Coachee, e pone le sue risorse a favore dell’individuazione di questo processo.  

La pratica moderna del Coaching ha fatto emergere una professione in forte ascesa con vasti spazi di applicazione e di grande interesse per il mercato, per le aziende e per i privati.

Tutto ciò ha determinato un forte aumento dell’offerta della professione di coach, sostenuta certamente da una comunicazione mediatica semplice e diretta che sottolinea la possibilità per tutti di raggiungere gli obiettivi desiderati e di sviluppare ciascuno le proprie potenzialità. L’insidia maggiore nascosta nell’effervescenza del mercato di fronte a questa nuova proposta si riferisce alla incertezza del percorso didattico formativo per potersi definire coach. La formazione non è disciplinata da alcuna legge e l’unica restrizione è che, ad oggi, il coach non potrà applicare tecniche e metodi ad esclusivo appannaggio di professioni che se ne vedono riconosciuto dalla legge l’esclusività (es. psicologi).

E’ lecito approcciare la pratica del Coaching quindi per tutte quelle figure di confine (ad es. l’antropologo, il sociologo, il comunicatore, l’esperto di scienze umane in genere), le quali possono svolgere funzioni di coach aziendale e life coach in tutte le mansioni sopra riferite, fatto salvo naturalmente quelle per quanto concerne la cura psicologica e psicoterapica del paziente, la somministrazione di test ecc., per le quali la figura principale a cui fare riferimento è quella appunto dello psicologo.

Due cose che si possono integrare, ma ben distinte.

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Foto di copertina by yanalya

Docente di Psicologia Sociale e Comunicazione presso la Sapienza di Roma. E' Coach professionista e autore di pubblicazioni su cultura generale, stress, burnout e mobbing. E' scrittore e regista, e i suoi corti hanno partecipato a vari festival e manifestazioni nazionali.

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