L’approccio svedese al covid-19 è diverso da tutti gli altri nel mondo. Ovunque si avverte di fare attenzione, si chiede rigore, si impone l’uso delle mascherine per proteggersi a vicenda da un male comune, il ben noto Covid-19.
Un approccio, quello svedese, molto dibattuto su come affrontare il Covid-19. La Svezia, considerata una paladina della libertà, propone una formula diversa a nome del loro ben noto pragmatismo: niente mascherine, niente sicurezza, niente regole per contrastare la diffusione del male. La strategia svedese per il coronavirus si è basata essenzialmente sulla formulazione di raccomandazioni e sulla divulgazione di informazioni alla popolazione, facendo leva sulla fiducia verso la responsabilità individuale e, di ritorno, sull’elevato livello di fiducia dei cittadini nei confronti delle autorità nazionali e locali. 10,3 milioni di persone libere di interpretare la situazione come credono, a proprio rischio, ovviamente. D’altronde, l‘ultima volta che in Svezia si è perseguito l’individualismo con i denti e gli artigli, il governo era nelle mani pelose di uomini che andavano a lavorare sulle barche a vela e la gente viveva nelle capanne. Relativamente all’aspetto “mascherine”, gli esperti dibattono ancora oggi: le prove che le indossarle aiuti a proteggersi sono deboli secondo alcuni, per i quali rimangono molto più efficaci altre misure. Una politica che si basa su prove e pragmatismo, quindi, ma ancora da dimostrare definitivamente nella sua efficacia.
Gli svedesi amanti della libertà stanno presumibilmente perseguendo una strategia priva di protezioni e di sicurezza appoggiando quella teoria che spesso sentivamo durante le prime fasi del lockdown. Era marzo e si parlava molto di immunità del gregge. Uno studioso dell’Università di Copenaghen, Kim Sneppen, ha recentemente pubblicato su Science le sue conclusioni: “per raggiungere lo “scudo protettivo” potrebbe bastare anche che a sviluppare anticorpi sia il 43% della popolazione e non il 60 come comunemente si afferma.“
Quanto ai numeri, le ultime notizie ci raccontano che La Svezia ha registrato il primo ottobre, il più alto numero di contagi da giugno. I nuovi positivi sono stati (qualche giorno fa) 752 secondo quanto riporta l’Agenzia sanitaria. Si tratta dell’ultimo aumento record dopo settimane di costante incremento delle infezioni. Numeri alti, ma comunque meno importanti rispetto a quelli di altri Paesi. Anche all’inizio di tutta questa triste storia, la Svezia si limitava a bandire gli assembramenti di grandi gruppi e a fornire numerosi consigli sulla salute, mentre rifiutava blocchi e chiusure generali. Ma non è stato un approccio particolarmente riuscito. La Svezia presenta, infatti, un tasso di mortalità di circa 60 su 100.000 persone, dieci volte quello di Finlandia e Norvegia, ma molto minore rispetto a Paesi più a sud in Europa.
Viene da chiedersi se a far registrare meno contagi siano le caratteristiche climatiche, o il numero di abitanti, o altre caratteristiche peculiari. In effetti, rispetto ai suoi vicini nordici la Svezia ha registrato un tasso di mortalità pro capite ben superiore, circa 6000 decessi, ma inferiore a quello di Paesi come l’Italia, la Spagna o la Gran Bretagna, che hanno optato per i blocchi. Forse anche per questo, i funzionari dell’OMS hanno lodato l’iniziativa definendola un modello sostenibile.
Sostenibile per quale motivo? Forse anche perché è un approccio che evita di mandare in bancarotta l’economia. La Svezia ha davvero delle lezioni da dare anche su questo piano? Oggi la Svezia si propone come un faro progressista che si trova al settimo posto nella classifica della spesa sociale dell’OCSE, davanti persino alla Germania. E lì vuole rimanere, a rischio di contagi. Ma a ben guardare, la libertà degli svedesi non ha risparmiato neanche l’economia: la produzione nel solo secondo trimestre è diminuita dell’8,3%, anche peggio degli altri paesi nordici.
Un’ulteriore controreplica è che, a differenza di Gran Bretagna, Francia e Spagna, la Svezia non ha visto una seconda ondata. Tuttavia, anche se si lascia da parte il fatto che i casi a Stoccolma e nella regione circostante sono quasi quadruplicati a settembre (ma in termini assoluti, sono ancora bassi), la nuova strategia svedese per la seconda fase converge con quella tedesca che comporta rapidi test su larga scala e tracciamento dei contatti in modo da identificare e sopprimere tempestivamente i focolai. Questo è accompagnato da un messaggio chiaro, coerente, sostenibile perché dà autonomia alle singole persone. Questi sono gli elementi costitutivi di strategie anti-covid-19 di successo ovunque.
La lezione dalla nuova politica svedese non è che sia libertaria, ma che il governo soppesa i compromessi di ogni restrizione. Ad esempio, quando qualcuno risulta positivo, l’intera famiglia deve entrare in quarantena (gli scolari ne sono esentati) ma la quarantena da loro dura da cinque a sette giorni, rispetto alle due settimane applicate generalmente altrove. Il rischio di diffondere il covid-19 in quella seconda settimana sembra sia considerevolmente più basso, dunque sostenibile rispetto al danno alla salute mentale di un isolamento prolungato di un’intero nucleo familiare.
Eppure, e considerato tutto, le notizie di cronaca che provengono dalla Svezia non sono molto diverse da quelle che abbiamo sentito dalle nostre parti. Una madre che è venuta a mancare in una casa di cura di Stoccolma, dove più di un terzo dei residenti ha ceduto al coronavirus. “Non hanno avuto il tempo di prendersi cura di mia madre“, ha dichiarato il figlio. “Il personale della casa di cura non aveva equipaggiamento protettivo e sta diffondendo il virus in tutta la casa.”