Mario Draghi, un uomo laureato in economia alla Sapienza di Roma con relatore Federico Caffè con una tesi in cui sosteneva che, all’epoca (1970), non sussistessero le condizioni per un progetto di una moneta unica europea. Un uomo che nel 1971 entra al Massachusetts Institute of Technology su segnalazione di Franco Modigliani e ha come professore, fra gli altri, Stanley Fischer, futuro governatore della Bank of Israel. Nel 1977 consegue il PhD con la tesi intitolata Essays on Economic Theory and Applications sotto la supervisione dello stesso Modigliani e di Robert Solow.
Si parla di un peso massimo che ha avuto il privilegio di avere come insegnanti alcuni tra i più “grandi”, o meglio direi “noti”, economisti degli ultimi 50 anni. Un uomo che da giovane sottolineava l’infattibilità della moneta unica e ora è baluardo dell’Europa dell’Euro. Un uomo che nel 1992 mentre la lira andava a fondo, navigava a largo di Civitavecchia a bordo della Britannia, il panfilo della Corona d’Inghilterra, dove manager ed economisti italiani discussero con i banchieri britannici della prospettiva delle privatizzazioni in Italia.
Insomma, Draghi c’era all’inizio della fine dell’Italia e c’è tutt’oggi, come un Caronte che ci traghetta dalla parte sbagliata dell’Inferno. Perché?
Compagni di merende
Il 16 settembre 1992 George Soros, tramite una speculazione finanziaria, guadagnava 1,1 miliardi di dollari facendo svalutare la sterlina e costringendola a uscire dallo SME (sistema monetario europeo). Lo stesso giorno attaccava la lira italiana. A seguito dell’attacco speculativo di Soros, personaggi italiani quali Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi, allora rispettivamente governatore della Banca d’Italia e direttore generale del Tesoro, hanno regalato a Soros e agli speculatori 15.000 miliardi di lire, una perdita secca provocata da un utilizzo più complice che maldestro di riserve per 48 miliardi di dollari che non ha impedito una svalutazione della lira del 30% e una sua uscita dallo SME.
Incredibilmente Prodi partecipò nel 1992 alla cerimonia della laurea honoris causa conferita a Soros dalla facoltà di economia dell’ Università di Bologna, presieduta da Stefano Zamagni, stretto collaboratore dell’ex primo ministro emiliano, e presentò anche l’edizione italiana del libro autobiografico dell’uomo che nel ‘92 aveva guadagnato somme enormi speculando sulla lira e contribuendo (con varie banche d’affari) a far bruciare alla Banca d’Italia circa 40 mila miliardi di lire in riserve valutarie. Si noti che Draghi nel 1992 era direttore generale del Tesoro, presidente della Banca d’Italia e ora Presidente della Bce.
Il programma Draghi
Il 25 marzo scorso, Mario Draghi scrisse una specie di programma per il Financial Times, che Maurizio Blondet ha cortesemente tradotto e ripubblicato. La linea rossa che passa per tutto il suo “vademecum” è sempre quella di fare leva sul debito pubblico. Come tutti i grandi “salvatori finanziari”, vedi Monti, tutto è puntato sul far percepire il valore di qualcosa che valore non ha, perché non sussiste. Il debito è un fantasma, e i fantasmi fanno paura. Cito i passi più rilevanti della lettera per chiarire questo punto:
Catastrofismo biblico
La pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Oggi molti temono per la loro vita o piangono i loro cari scomparsi. Le misure varate dai governi per impedire il collasso delle strutture sanitarie sono state coraggiose e necessarie, e meritano tutto il nostro sostegno.
Ma queste azioni sono accompagnate da un costo economico elevatissimo – e inevitabile. E se molti temono la perdita della vita, molti di più dovranno affrontare la perdita dei mezzi di sostentamento. L’economia lancia segnali preoccupanti giorno dopo giorno. Le aziende di ogni settore devono far fronte alla perdita di introiti, e molte di esse stanno già riducendo la loro operatività e licenziando i lavoratori. Appare scontato che ci troviamo all’inizio di una profonda recessione.
La sfida che ci si pone davanti è come intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura, resa ancor più grave da un’infinità di fallimenti che causeranno danni irreversibili. È ormai chiaro che la nostra reazione dovrà far leva su un aumento significativo del debito pubblico.
La perdita di reddito a cui va incontro il settore privato – e l’indebitamento necessario per colmare il divario – dovrà prima o poi essere assorbita, interamente o in parte, dal bilancio dello stato. Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato.
Indebitamento
Le banche devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sotto forma di garanzie di stato su prestiti e scoperti aggiuntivi. Regolamenti e normative collaterali non dovranno ostacolare in nessun modo la creazione delle opportunità necessarie a questo scopo nei bilanci bancari. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrà essere calcolato sul rischio creditizio dell’azienda che le riceve, ma dovrà essere pari a zero, a prescindere dal costo del finanziamento del governo che le emette.
Le aziende, dal canto loro, non preleveranno questa liquidità di sostegno semplicemente perché i prestiti sono a buon mercato. In alcuni casi – pensiamo alle aziende con ordini inevasi – le perdite potrebbero essere recuperabili e a quel punto le aziende saranno in grado di ripianare i debiti. In altri settori, questo probabilmente non sarà possibile.
Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.
O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il rischio morale, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva.
I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.
Europa salvatutto
Per alcuni aspetti, l’Europa è ben attrezzata per affrontare questo shock fuori del comune, in quanto dispone di una struttura finanziaria capillare, capace di convogliare finanziamenti verso ogni angolo dell’economia, a seconda delle necessità. L’Europa dispone inoltre di un forte settore pubblico, in grado di coordinare una rapida risposta a livello normativo e la rapidità sarà assolutamente cruciale per garantire l’efficacia delle sue azioni.
Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.
La velocità del tracollo dei bilanci delle aziende private – provocate da una chiusura economica al contempo doverosa e inevitabile – dovrà essere contrastata con pari celerità dal dispiegamento degli interventi del governo, dalla mobilitazione delle banche e, in quanto europei, dal sostegno reciproco per quella che è innegabilmente una causa comune.
Conclusioni
Le conclusioni a mio parere, per chi ha voglia di vederle, sono più che evidenti. Bisogna fare qualcosa velocemente, urgentemente per arginare un’epidemia devastante che sta mandando in crisi le economie di mezzo mondo. Come fare quindi secondo i “finanzieri”?
Fare quello che si è sempre fatto in finanza: fare leva.
Peccato che ciò su cui si farà leva (uso il futuro perché queste persone quando parlano esprimono scenari già decisi da tempo) lo si farà su qualcosa che tangibilmente non esiste e che viene quindi facilmente strumentalizzato: Il debito pubblico.
Facendo leva sull’ignoranza in campo economico/statistico/matematico e sulla costante paura di una recessione imminente si convincono gli stati ad indebitarsi, verso chi poi non è dato a noi sapere. Utilizzando vera e propria fuffa, come nel 2008 si utilizzarono i mutui sub-prime, si può fare tutto e il contrario di tutto. Nessuno ha mai torto, nessuno ha mai ragione, l’unico obiettivo è sopravvivere alla crisi/catastrofe/recessione di turno.
A quel punto, creato il problema, si dà la soluzione che in questo caso è rappresentata dall’Europa. Altro fantoccio, altro strumento di potere autoimposto e autolegittimatosi.
Facendo leva su qualcosa di intangibile, di complesso, sono solo gli squali della finanza, i magnati e i giornali di regime a poter pontificare dall’alto delle loro cattedre. Non dobbiamo dimenticare che prima della crisi del 2008, tramite termini tecnici come leverage, downgrading, mutui sub-prime, cartolarizzazione e via dicendo, si è creato il caos. I lupetti di Chase, Lehman, Stearn, Stanley ecc. sganasciavano al telefono e via mail dopo aver venduto assets tossici alla gente, che poi finiva per strada. La colpa è poi ricaduta sulle loro teste, ma molti dei loro capi sono rimasti impuniti, alcuni uscendone anche con liquidazioni milionarie.
Chiudo dicendo che, lo voglio ricordare, con l’indebitamento nascono le guerre e con l’indebitamento finiscono. E il signor Putin la settimana scorsa, tra le righe, è stato chiaro sulle eventuali conseguenze di altre manovre truffaldine europee con l’intoccabile principino di Davos, il signor Klaus Schwab, colui che già un anno fa concepiva il Great Reset.
Bello vincere facile, ma prima o poi la si paga. La cricca americana da un lato, Draghi & CO dall’altro. Stiamo a vedere, e stiamo sul pezzo, whatever it takes…
Fonte: MaurizioBlondet.it